12 febbraio 2011

Cambio a Cuba: Mubarak come Batista, l'Egitto non è Cuba

In questi ultimi giorni la rivolta egiziana che ha portato alle dimissioni di Mubarak ha infiammato molto gli animi dei dissidenti cubani dentro e fuori l'isola. Alcuni gruppi su facebook e blog dell'isola e da fuori incitano ad una protesta popolare, a scendere in piazza, a replicare la protesta egiziana sull'isola.

Credo che questa eccitazione sia fuori luogo per vari motivi che cercherò di chiarire.
Innanzitutto Mubarak e il suo regime non ha molto in comune con quello cubano nè con Fidel. Anzi ha molte più cose in comune con il vecchio regime di Batista.
L'egitto è sempre stato abbondantemente finanziato e supportato sia dagli USA che dalla UE, per il suo appoggio a Israele e per un baluardo occidentale contro possibili egemonie islamiche.

Questo ha portato negli anni ad una drammatica realtà economica e sociale, dove i poveri senza alcun tipo di sussistenza morivano di fame, mentre il Governo creava una elitè di potere che sguazzava nel lusso più spudorato, sempre coccolato dalle potenze occidentali.

In questo panorama si è sviluppata una crescente intolleranza popolare, che se prima era limitata alle frange più povere del paese, negli ultimi anni ha intaccato anche quella media borghesia che non riesce più a sostenere un livello di vita dignitoso.

Esattamente lo stesso panorama cubano degli anni della dittatura di Batista antecedente la rivoluzione castrista.
E' quindi azzardato comparare le due realtà, ma non solo. A Cuba la maggioranza della popolazione seppur critica verso una vita difficile che ha molti aspetti insostenibli: salari insufficienti, proibizioni nella libertà d'espressione, controllo totale sulla popolazione, problemi d'acqua e elettricità, Diritti Umani carenti, etc. sostiene un'ideologia socialista che ha ancora aspetti positivi come la sanità, la scuola e una garanzia anche se minima nell'approvvigionamento di cibo e casa per tutti. Inoltre le recenti privatizazioni di alcune attività commerciali mostrano un piccolo passo verso un cambio che deve necessariamente avvenire gradualmente, per evitare il ripetersi di quello già accaduto nell'ex URSS.

Inoltre la cosa per me più evidente e importante è che l'alternativa occidentale ha fallito totalmente nel suo modello sociale ed economico. Le luci sfavillanti che vogliono vendere, l'illusione di una vita migliore, la falsa "libertà" che propagandano è risultata essere una mera chimera, vera solo per chi se la può permettere, mentre la maggioranza della popolazione negli Stati Uniti come in Europa vive un'esistenza triste fatta di false relazioni sociali e vere privazioni basilari, quì si muore di fame nella miseria, a Cuba no.

Pubblico di seguito uno stralcio della vita dei cubani a Miami, tratto da " le Monde Diplomatique", che illustra come il sogno americano è tuttaltro che quel paradiso tanto desiderato da molti cubani e sempre più in mano alla destra più oltranzista, dove i ricchi e mafiosi vengono finanziati dal Governo USA per abbattere il Governo a Cuba e poter così conquistare nuove terre vergini dove esportare McDonald e Coca Cola, da invadere con le lobby e le multinazionali ed espandere quel falso modello edonista capace solo di esportare odio e guerre come hanno fatto e continuano a fare in ogni parte del mondo che toccano.

Rob Ferranti

"Miami è stufa dell'estrema destra cubana"

«Qui è come a Cuba, ma con in più il cibo!». Il sole è tramontato su Miami e sembra di stare all'Avana: siamo in febbraio e ci sono ancora più di venti gradi. Da una piazza all'altra, in mezzo ai grattacieli, svettano le palme, in lontananza spicca la grande M di un McDonald's.
Con gli occhi il cubano mostra le vetrine piene di elettrodomestici, di mobili, di vestiti, di televisori all'ultima moda, e si lancia in una stima (piuttosto sommaria): «C'è di che rifornire l'intera popolazione di Cuba per un secolo».
I negozi abbassano le saracinesche e nei piccoli fast food latinos si sentono le ultime note di salsa. Donwntown Miami - il centro della città, peraltro tutto spostato a est - si svuota dei suoi uomini d'affari, delle sue segretarie, dei suoi impiegati. Con il lasciapassare ancora al collo, quasi tutti parlano in spagnolo. Qualche eccentrico si esprime in inglese. Ma tutti si affrettano: ben presto la Wall Street dell'America latina si trasformerà in un lugubre deserto di cemento e acciaio.
La metropolitana all'aperto si dirige verso lontane periferie. Un convoglio ogni venti minuti (quando va bene). Gli autobus si lanciano in interminabili maratone. Miami è fatta per chi può permettersi una macchina, non per i poveri. In questi autobus ci si conosce.
Un cubano saluta una cubana. Non parlano di politica né di Fidel Castro.«Come va?» «Sono stanca di andare sempre di corsa». La donna abbozza un sorriso stanco.
L'autobus non va verso Miami Beach, con le sue palme, l'oceano brillante e i suoi alberghi art déco, ma al quartiere popolare di Hialeah.
In realtà anche Miami Beach - questa Mecca dell'edonismo - ha i suoi cubani, ricchi ovviamente. E l'esercito di cameriere, di donne delle pulizie e di inservienti. Tutte queste ragazze di seconda generazione, che, perfettamente bilingue, attirano i turisti davanti ai ristoranti di Ocean Drive. «Hey, this is the place! This is the good place! Holá, amigos, como están? Tenemos de todo». Ma questo autobus non va né a Miami Beach né a Little Havana.
Little Havana. Un mito. Un mito alimentato da frotte di giornalisti frettolosi. È vero, per molto tempo Little Havana, a ridosso di Downtown, è stata il «feudo» cubano di Miami. Una roccaforte popolata da sostenitori di Batista: grandi proprietari, liberi professionisti, dirigenti, commercianti, ma anche trafficanti di ogni risma fuggiti dalla rivoluzione. [...]

Del loro splendore passato rimangono i vecchi anticastristi che giocano a domino nel Maximo Gómez Park e il ristorante Versailles, quartier generale dell'estrema destra in esilio. È da queste parti che in occasione di ogni evento importante il clima diventa effervescente: in occasione dell'implosione dell'Unione sovietica, «tra poco, molto poco, cadrà anche Fidel»; con la crisi dei balseros, «con la prossima spallata, il sistema crollerà»; quando le truppe americane hanno preso Baghdad, «oggi l'Iraq, domani Cuba!»; quando il «líder máximo» si è ammalato, «questa è una grande occasione per tutti gli uomini e donne di coraggio che vogliono che Cuba prenda un'altra strada». È qui perciò che si precipitano le telecamere per riprendere i membri della «comunità», anche se di solito sono solo alcune migliaia di persone a manifestare su 650 mila cubani.
In ogni modo bisogna riconoscere che dagli anni Sessanta in poi l'estrema destra cubana ha sempre avuto il controllo di Miami grazie all'enorme potere economico del suo capitale iniziale, al suo dinamismo e all'aiuto concesso da dieci amministrazioni successive; e grazie anche al controllo dei media. Due mondi strettamente collegati.
Due quotidiani in spagnolo, Diario las Américas ed El Nuevo Herald - versione spagnola del Miami Herald. Sei radio - La Poderosa, Radio Mambi, Wqba, ecc.; una rete televisiva, Canal 41. «Quando sono arrivato, nel 1982 - racconta Luis, un uruguaiano - ho subito cominciato ad ascoltare la radio e a guardare la televisione in spagnolo. Tutti i programmi avevano un solo argomento: Cuba. Era il nostro pane quotidiano, una propaganda incessante che non aveva nulla a che vedere con l'informazione».
E da allora non è cambiato nulla.
I giorni dell'esilio Riguardo la stampa scritta, il discorso è simile. Il Miami Herald sa bene che da un punto di vista economico non ha alcun interesse a mettersi contro la destra cubana. La sua traduzione in spagnolo, El Nuevo Herald, va ancora più lontano: edulcorando, censurando addirittura alcuni articoli della casa madre, pubblica quello che sembra più un ciclostile politico che un quotidiano. Per trovare in città una copia di Usa Today o del New York Times bisogna alzarsi presto. E in ogni modo sono scritti in inglese, una cosa che non piace molto ai cubani.
«Il ruolo della radio in questa città - spiega Francisco Aruca - è sempre stato quello di mantenere "la linea" e di esercitare una pressione sociale, in particolare sui gruppi che manifestano opinioni diverse. C'è stato un tempo in cui se ti criticavano alla radio dicendo che eri un simpatizzante di Castro, anche se non era vero, la sera gli amici non ti salutavano dicendoti: "Mi sei molto caro, ma è meglio se non ci facciamo vedere insieme". E tutte le porte si chiudevano».
Contrario all'indirizzo preso dalla rivoluzione - al punto di prendere le armi per combatterla sull'isola negli anni '60, nelle campagne dell'Escambray - Marc Leznic, dopo essere arrivato a Miami, ha creato una rivista, Réplica. Tornato su posizioni più moderate, Leznic raccomanda oggi il dialogo e rifiuta la violenza contro Cuba. «La rivista è stata vittima di undici attentati dinamitardi fra il 1975 e la metà degli anni Ottanta, quando abbiamo smesso di pubblicarla». I tempi cambiano, negli Stati uniti si è ridotto lo spazio per questo tipo di attività. «Questo ci permette di sopravvivere in un ambiente ostile, ma dove l'azione diretta è più difficile - osserva Leznic, che dirige adesso, sempre sulla stessa linea politica, Radio Miami. Ma questo non vuol dire che ci sentiamo del tutto sicuri». [...]

Nei primi tempi l'esilio cubano aveva un carattere familiare, bianco, ricco e fortemente anticastrista. L'ondata antirivoluzionaria successiva, fino alla metà degli anni '70, vi ha aggiunto il suo numero di impiegati, di artigiani, di insegnanti e di piccoli commercianti. Nel 1980, in seguito alle gravi difficoltà incontrate dall'isola, 125 mila cubani attraversano lo stretto della Florida dal porto di Mariel.
Ma se si eccettua il piacere di vedere L'Avana in difficoltà, i loro predecessori ricevono piuttosto male questi marielitos: per la prima volta la città si popola di cubani che non appartengono né all'ex classe dominante né alla classe media, ma provengono «dalla strada» e hanno una pelle un po' più «colorata». Il fenomeno diventerà ancora più accentuato nel 1994, con l'arrivo dei balseros.
La città cambia completamente, con alcuni effetti perversi. «Nel complesso, osserva un «anglo» del quartiere di Coral Gables parlando dei marielitos, la maggioranza di persone arrivata è gente perbene, onesta, ma tra di loro vi sono anche dei delinquenti e dei malati mentali mandati da Castro». Riguardo questi ultimi, Max Leznic fornisce una spiegazione di solito passata sotto silenzio: «Questi matti si trovavano negli ospedali psichiatrici cubani, lasciati alle cure della rivoluzione. L'Avana ne aveva la lista. "Dove sono i loro parenti?
Negli Stati uniti? Allora fateli uscire e spediteli laggiù. I loro parenti hanno i mezzi per occuparsene"». Con tutti questi arrivi Miami ha attraversato un periodo difficile, contrassegnato dalla violenza, da traffici di droga e da morti violente (in seguito la situazione è parzialmente migliorata).
Gli americani di colore non vedono con piacere l'arrivo di questi nuovi emigranti, che fanno loro concorrenza nella ricerca di lavori umili già malpagati. A loro volta i latinoamericani e gli haitiani sopportano con difficoltà il trattamento privilegiato di cui beneficiano i cubani. «La loro posizione viene subito regolarizzata - osserva Luis, l'uruguaiano. Sono gli unici. Gli altri vivono nella paura, e per molto tempo in condizioni di illegalità. Se sono scoperti perdono tutto e devono "sloggiare"».
A tutto ciò bisogna aggiungere che ancora oggi i cubani - anche se hanno ottenuto la nazionalità americana - vivono fra cubani. «Sono snob, si considerano i migliori, sono diversi! A noi, latinos, ci trattano da indios». Il paradosso può andare più lontano: ormai la rivoluzione è qualcosa di lontano nel tempo e così, non appena viene evocato loro il presidente venezuelano Hugo Chávez, assumono un'aria importante: «Chávez? È un pagliaccio! Fidel è molto, molto più intelligente».
La situazione è ancora peggiore con l'estrema destra: «Se gli afroamericani sapessero come parlano di loro. Per fortuna non capiscono quello che viene detto alla radio».
Tuttavia i cubani del dopo-Mariel hanno dato a Miami il suo volto, con i loro difetti e le loro qualità. Simpatici, ironici, estroversi, aiutati al loro arrivo dal governo americano, hanno lavorato sodo e si sono creati un loro spazio. I più dinamici sono diventati commercianti, piccoli imprenditori nel campo dei servizi, del commercio, delle pizzerie. Tutti fanno ridere il loro connazionale Francisco: «Criticano Fidel perché non li lasciava viaggiare. Arrivati qui, non escono mai da Miami, a loro il mondo esterno non sembra interessare. C'è una sola eccezione: appena hanno quindici giorni di vacanza vogliono andare a Cuba!».
L'anticastrismo radicale si attacca alle sue certezze: ancora un mese, una settimana, un giorno e il «regime» cadrà; gli esiliati torneranno sull'isola e saranno accolti in modo trionfale; uno di loro si presenterà alle elezioni presidenziali e le vincerà. A forza di parlare della vittoria futura e sempre rimandata, si credono invincibili e vivono guardando al passato.
Attorno a loro hanno attirato e attirano tuttora una moltitudine di organizzazioni criminali - Alpha 66, Comandos L, Comandos Martianos Mrd, Omega 7, Partito di unità nazionale democratica (Pund), Consiglio per la libertà di Cuba e così via - e una facciata più «rispettabile», la Fondazione nazionale cubano-americana (Fnca), creata nel settembre 1981 da Ronald Reagan, e le cui modalità operative sono basate sulla corruzione degli uomini politici e sull'intimidazione. Tutte queste persone vivono dilapidando patrimoni enormi: il denaro fornito generosamente dalla Cia e dalle varie amministrazioni per «rovesciare Castro». [...]

La maggioranza dei cubano-americani ha invece altre preoccupazioni.
Di fronte a questi estremisti, alla loro violenza e alle loro pressioni, per molto tempo la popolazione cubana di Miami ha tenuto un atteggiamento piuttosto passivo, partecipando anche al finanziamento delle loro attività pubbliche (e delle varie attività clandestine contro Cuba).
Ma soprattutto, ha cercato di non farsi notare. «Anche qui - dice Francisco - la gente ha paura di parlare. Non sono d'accordo con la corrente dominante, ma non dicono nulla per evitare problemi».
L'embargo dei pacchi Come i milioni di latino-americani che non provengono da un paese «comunista», ma che hanno scelto comunque di emigrare negli Stati uniti, i cubani hanno intrapreso il viaggio per ragioni economiche.
Avendo lasciato le loro famiglie sull'isola, vogliono poter andare a trovarle, e anche se i loro mezzi sono per lo più modesti, vogliono aiutarle. E non vogliono sentir parlare di embargo o di invasione militare dell'isola.

di Maurice Lemoine da Le Monde Diplomatique

1 commento:

nino ha detto...

è chiaro che a miami non c'è solo l'estrema destra, ma è altrettanto chiaro che questa ha in mano il potere economico in città.
Se il socialismo cubano dovesse crollare, avrebbe tutti i mezzi economici per affermarsi nell'isola.
E in quel caso, altro che capitalismo sui generis!
Si affermerebbe quello primitivo.
La politica economica di questi signori, infatti, è conosciuta: tagli allo stato sociale e privatizzazioni delle imprese pubbliche con licenziamenti di massa.
E'vero che da un giorno all'altro non ci sarebbe piu'la doppia moneta, ma i cubani si dovrebbero scordare tutto ciò che è pubblico. Ci sarebbe una politica di lacrime e sangue.