23 ottobre 2009

Vivere a Cuba: jineterismo universitario

di Laritza Diversent da Desde la Habana

Quando nel 2000 iniziò il terzo millennio, la situazione economica vissuta negli anni '90 era cambiata.
Le rimesse di denaro dall'estero furono determinanti per questo cambiamento. La presupposta uguaglianza sociale scomparì. Nonostante questo continuava il periodo speciale. Ora più sottile e crudele.

La moneta si svalutò e con essa i salari.
Riusciva vagamente a sopravvivere chi aveva un famigliare all'estero. Però non era il mio caso. Con questo svantaggio i miei studi all'università furono ancora più dolorosi.
Aver avuto un figlio a soli 19 anni, necessitava più sacrificio e accettazione da parte mia. Grazie all'aiuto di mia madre ho potuto continuare gli studi e laurearmi in scienze giuridiche.

Non fu facile conquistare la meta che mi ero prefissa. Arrivai al termine degli studi perchè avevo il sogno di diventare una professionista e una donna indipendente. In quei cinque anni ho avuto due grandi amiche, la speranza e la pazienza. Oltre, ovviamente, alla frustrazione.

La prima cosa che mi colpì furono le differenze economiche e sociali. Alle otto di mattina, le studentesse della mia facoltà erano vestite da cabaret. Era più di uno spettacolo, di una "especulacion", come diciamo a Cuba. Era un modo di competere, di elevarsi, di utilizzare l'immagine per affermarsi.

Questa attitudine, questo esibizionismo, si riassume in due parole "jineterismo universitario" (Jinetera si può tradurre in "prostituta" n.d.t.).
L'Università dell'Havana, molto vicina agli hotel del Vedado, era un luogo propizio per i magnaccia travestiti da studenti. Le condizioni esistevano già: molte giovani, attraenti, intelligenti ed educate, si convertivano in un centro di attrazione per i turisti stranieri.

Un'altra delusione. Immaginate un futuro giudice, pubblico ministero o avvocato prostituta. O a futuri giuristi che vivono di traffici loschi. Sì, perchè molte facoltà erano sede di compra vendita illegale. Si trovava di tutto, da un'opera d'arte fino a vestiti e scarpe di marca.

Tutto era una grande ipocrisia. Perchè i direttori e i professori ci ricordavano continuamente che dovevamo essere "il principale bastione nella lotta contro l'illegalità". Che la nostra professione era applicare la legge, senza pensare alla giustizia.

Nel frattempo, tutti i giorni andavo in classe con i miei jeans smunti e scarpe rattoppate, nascosta in un angolo per non richiamare l'attenzione. Lo confesso: quegli stracci mi facevano vergognare.
Volero apparire come tutte le ragazze. Sentirmi bella, ben vestita, ma non sapevo come. La mia ferma decisione nell'andare avanti mi fece superare il mio complesso.

Io non ero l'unica povera. C'erano altre ragazze nella stessa, se non peggiore, condizione. Sognavamo che dopo esserci laureate, la situazione sarebbe cambiata. Invece, nell'avanzare dei semestri, ci andavamo svegliando da quella fantasia. Sino alla fine del quinto anno, solo allora eravamo convinte che saremmo continuate ad essere delle morte di fame. Con la differenza che ora avevamo una laurea appesa al muro.

Fu la peggiore delle delusioni. E il mio inizio come dissidente. Avevo seguito i consigli dei miei genitori. Avevo studiato per essere qualcuno. Mi sono sacrificata per riuscirci. E dopo tutto questo, la mia vita è continuata restando la stessa.

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