Con il solito velo di retorica rivoluzionaria che piace molto ad alcuni cineasti , è stato presentato a Roma nella sezione "L'Altro Cinema", il docu-film di Andrew Lang "Sons of Cuba", ambientato all’Havana Boxing Academy, la scuola dove, se ammessi, giovani campioni crescono, con pochi mezzi ma nel mito del riscatto sociale e (ovviamente) della rivoluzione.
Andrew Lang è un regista di 27 anni. Negli ultimi tre anni, ha lavorato al suo primo lungometraggio, Sons of Cuba. La sua carriera di cineasta ha inizio con i corsi frequentati nel 2003 presso l'Universidad Catolica in Cile e, nel 2005, presso l'EICTV a Cuba.
Il film racconta la vita di alcuni bambini dell'Accademia il cui accesso è riservato ai bambini di nove anni ospitati dal centro per tutto il periodo della loro formazione atletica.
La boxe è uno dei modi per uscire da una situazione di povertà e indigenza "normalmente diffusa" su tutta l'isola, ma paradossalmente, per questi bambini ancora troppo ingenui per conoscere la loro vera realtà, è anche un modo per onorare nel mondo la forza della rivoluzione cubana e insieme una delle tradizioni pugilistiche più prestigiose e medagliate al mondo.
Alla maniera del film di Wenders "Buena Vista Social Club", "Sons of Cuba" racconta storie di vita e di speranze, come quella del dodicenne Cristian soprannominato "el viejo" dal suo allenatore perché "ha la testa di un uomo di 70 anni".
Cristian è figlio d’arte e vuole onorare la discendenza: "Voglio diventare come mio padre, più forte di mio padre", olimpionico a Montreal nel '76.
Entrare all’Academy, nonostante la vita non sia facile, con un mix di stile monastico e marziale dei templi shaolin, per i figli dei cubani significa avere più occasioni che altrove nell’isola.
Da lì sono usciti grandi campioni, oltre a Stevenson anche Mario Kindelan, oro ad Atene, nonostante i mezzi spartani a disposizione: come sacco una pila di copertoni di ruote e un ring, a livello del pavimento, cinto da corde allentate.
Andrew Lang è un regista di 27 anni. Negli ultimi tre anni, ha lavorato al suo primo lungometraggio, Sons of Cuba. La sua carriera di cineasta ha inizio con i corsi frequentati nel 2003 presso l'Universidad Catolica in Cile e, nel 2005, presso l'EICTV a Cuba.
Il film racconta la vita di alcuni bambini dell'Accademia il cui accesso è riservato ai bambini di nove anni ospitati dal centro per tutto il periodo della loro formazione atletica.
La boxe è uno dei modi per uscire da una situazione di povertà e indigenza "normalmente diffusa" su tutta l'isola, ma paradossalmente, per questi bambini ancora troppo ingenui per conoscere la loro vera realtà, è anche un modo per onorare nel mondo la forza della rivoluzione cubana e insieme una delle tradizioni pugilistiche più prestigiose e medagliate al mondo.
Alla maniera del film di Wenders "Buena Vista Social Club", "Sons of Cuba" racconta storie di vita e di speranze, come quella del dodicenne Cristian soprannominato "el viejo" dal suo allenatore perché "ha la testa di un uomo di 70 anni".
Cristian è figlio d’arte e vuole onorare la discendenza: "Voglio diventare come mio padre, più forte di mio padre", olimpionico a Montreal nel '76.
Entrare all’Academy, nonostante la vita non sia facile, con un mix di stile monastico e marziale dei templi shaolin, per i figli dei cubani significa avere più occasioni che altrove nell’isola.
Da lì sono usciti grandi campioni, oltre a Stevenson anche Mario Kindelan, oro ad Atene, nonostante i mezzi spartani a disposizione: come sacco una pila di copertoni di ruote e un ring, a livello del pavimento, cinto da corde allentate.
Nessun commento:
Posta un commento