03 ottobre 2012

Cuba e Italia: il racconto di Domenico Pelice, uno dei giornalisti fermati all'Havana

Domenico Pelice
"Salvati dall'interprete che ama tanto l'Italia"

Trentasei ore in balia di altri. Tu sparisci. Sei solo un nome, un cognome, una nazionalità, una professione. Nella fattispecie, un periodista. E si sa che i giornalisti piacciono poco al pensiero unico dei regimi. Sei lì, in loro balia. Senza un perché plausibile, senza sapere cosa ti attende, senza poter chiedere aiuto. Entri, ostaggio, in una caserma militare. Anzi, in una caserma militare di un regime. Da quel momento fai l’ingresso in un’altra realtà, dove perfino le diaboliche dinamiche descritte da Kafka si annacquano. Sei solo. Non puoi più parlare, pretendere, chiamare qualcuno. Cercare di spiegare. Appartieni ad altri. Certo, sono gentili, ti ripetono di rilassarti. Ma intanto ti accompagnano anche in bagno. 


Strane sensazioni. Quel pomeriggio non sapevo come scrivere il pezzo. Poco prima avevo incontrato Reiner. Avevo fretta, tirava una brutta aria nel centro di Camagüey. Del resto, non si riusciva a mascherare l’ansia di ripartire. Dovevo scrivere e questo era l’imperativo assoluto. Mi sono affidato al mio Blackberry. Ma era scarico e non potevo neppure rientrare in hotel perchè avevo già disdetto la camera in attesa di ripartire per l’Avana. Ho chiesto un taxi. Mi hanno portato una vecchia Lada tutta ferro, con i finestrini anneriti. Ho trattato il prezzo: 10 Cuc (circa 9 euro) per starmene in auto con il motore acceso (niente aria condizionata) sotto un sole da liquefarsi per far funzionare il caricatore. Ho scritto di getto con i polpastrelli dei pollici, ricordando quello che avevo visto e sentito. Sette “mini-lanci”.

Di nuovo da Tyson. Il mio l’ho fatto, mi ero detto. Tuttavia, non si poteva ancora ripartire: mancava all’appello il fotografo del Corriere, che si era perso l’intervista mattutina con Tyson per cercare un improbabile Internet point. Così, aveva deciso di tornare, assieme al nostro driver, nella casa del killer per scattargli alcune foto. Erano già trascorse due ore e non rispondeva più al telefono. Decidiamo di andare a cercarlo e affittiamo un taxi che ci porta nel Reparto di Puerto azzurro, dove vive Reiver. Arrivati, percepiamo che qualcosa non va. Non c’è nessuno in strada e a quell’ora è impossibile. E soprattutto non c’è la nostra auto.

La telefonata. Rientriamo verso la piazza dell’hotel. Telefono al collega Pasqualetto del Corriere della sera e gli riferisco che non abbiamo notizia del suo fotografo. «Fammi sapere in poco tempo – gli dico –, perché c’è qualcosa che non torna». Subito dopo il nostro taxista riceve una telefonata. Ci riferisce che il nostro amigo periodista ci aspetta fuori dell’albergo. Lo guardo stupito e gli chiedo come mai abbiano informato lui. Non risponde. Cerco di tranquillizzarmi giustificando il silenzio del fotografo con la sua necessità di inviare in fretta e furia le immagini. Sto ancora rimuginando, ma ormai siamo arrivati alla piazza dell’hotel Ferro, dove ho pernottato. Ormai i giochi sono fatti.

Il bliz della polizia. Tutto accade in pochi attimi: la nostra auto che arriva, la strana concitazione, la folla eccitata. Ne emergono alcuni energumeni. Non c’è neppure il tempo di chiedersi cosa stia accandendo che siamo già fuori del taxi tra due poliziotti armati e in borghese. Entro nella loro auto, mi sfilano di mano il cellulare. Si parte. Silenzio assoluto. Non c’è nulla da capire perché non si può capire nulla. Arriviamo alla caserma del ministero dell’Immigrazione. Sono accompagnato nella sala d’aspetto. Ed è lì che ritrovo il driver, il fotografo e i due colleghi che erano con me a Puerto Azzurro e che erano saliti su un’altra auto. Comicia l’incubo.

L’attesa infinita. Ci guardiamo smarriti. Increduli. Nessuno parla. Ilaria è riuscita a trattenere uno dei cellulari e invia una serie di sms per informare dell’arresto. Possiamo solo chiedere da bere o accedere a quelli che eufemisticamente sono chiamati bagni. Tre ore dopo il comandante della stazione ci dice che saremo trasferiti al Parlamento, ovvero al Ministero del Interior, per gli interrogatori. Vogliono sapere tutto. Veniamo filmati, schedati. Sono gentili, i soldati. Alle 21 ci danno da mangiare, ma siamo privati di ogni libertà. Non capiamo quale sia il reato e soprattutto cosa aspettarci. Verso la mezzanotte ci dividono. Io con i due collegi di Matrix finisco in una casetta con due camerette. Ci chiudono dentro, sprangano le inferriate e mettono un soldato di sentinella.

Gli interrogatori. Alle 8 siamo riportati al Parlamento. Altri interrogatori. Sanno tutto di noi, ci hanno seguiti fin dall’arrivo. Sanno perfino per quale testata lavoriamo. Ma l’atteggiamento è cambiato. Più disponibili, meno rigidi, più propensi al dialogo. Tra loro c’è un poliziotto guascone. Durante l’interrogatorio fa una pausa e mi parla di calcio. È milanista. Se la prende con Berlusconi perché, testuale, «ha svenduto troppi campioni». Dopo il Milan per lui viene il Real Madrid. Gli ribatto che preferisco il Barcellona. Si parla, si scherza. Rifiato, finalmente. Ma è il ruolo dell’interprete, moglie di uno dei comandanti della caserma, che risulterà importante per l’esito delle vicenda.

Il ruolo dell’interprete. L’interprete ama l’Italia. Ama Bocelli, è nata lo stesso giorno. Ma è soprattutto una fan di Jovanotti, di cui conosce i testi di ogni canzone. È lei a interrogarmi per l’ultima volta e a tradurre ciò che dico al verbalizzante. È attenta a evitare parole come complotto, organizzazione, piano. Si percepisce che vuole escludere ogni connotazione politica della vicenda. Ripete che il nostro unico obiettivo era quello di intevistare Reiver, accusato in Italia di duplice omicidio. Alla fine dell’interrogarorio mi dice che tra poco partiremo per l’Avana. E così accade.

Di nuovo all’Avana. Saliamo su un furgone con tre poliziotti che custodiscono i nostri passaporti. Ma siamo di nuovo in possesso dei cellulari. Ci aspetta il viaggio verso l’Avana, circa 8 ore, attraversando agglomerati poveri, ma affascinanti prima di immetterci nell’autopista, 400 chilometri, due soste, un casco di banane dal sapore ineguagliabile. Arriviamo all’Avana verso le 22. Nuovo interrogatorio nella caserna dell’Immigrazione che ospita quelli che stanno per essere espulsi. Il comandante ci spiega che il nostri visto era in difetto, che rientreremo in Italia il giorno successivo, che dormiremo in albergo, ma che saremo scortati fin dentro l’aereo.

Cuba colorata e in festa. È l’ultima serata a Cuba. Decidiamo di uscire con un taxi laggiù, lungo il Malecon, il lungomare dell’Avana, dove si dice che i cubani incontrino l’anima gemella. È tardi, ma l’Avana come sempre è in festa. Colori, musica, danze, buon cibo, spensieratezza, sorrisi. Cuba è soprattutto questo. E il regime fa finta di non averlo capito.

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