Domenico Pelice |
Trentasei ore in balia di altri. Tu sparisci. Sei solo un nome, un
cognome, una nazionalità, una professione. Nella fattispecie, un
periodista. E si sa che i giornalisti piacciono poco al pensiero unico
dei regimi. Sei lì, in loro balia. Senza un perché plausibile, senza
sapere cosa ti attende, senza poter chiedere aiuto. Entri, ostaggio, in
una caserma militare. Anzi, in una caserma militare di un regime. Da
quel momento fai l’ingresso in un’altra realtà, dove perfino le
diaboliche dinamiche descritte da Kafka si annacquano. Sei solo. Non
puoi più parlare, pretendere, chiamare qualcuno. Cercare di spiegare.
Appartieni ad altri. Certo, sono gentili, ti ripetono di rilassarti. Ma
intanto ti accompagnano anche in bagno.
Strane sensazioni. Quel pomeriggio non sapevo come
scrivere il pezzo. Poco prima avevo incontrato Reiner. Avevo fretta,
tirava una brutta aria nel centro di Camagüey. Del resto, non si
riusciva a mascherare l’ansia di ripartire. Dovevo scrivere e questo era
l’imperativo assoluto. Mi sono affidato al mio Blackberry. Ma era
scarico e non potevo neppure rientrare in hotel perchè avevo già
disdetto la camera in attesa di ripartire per l’Avana. Ho chiesto un
taxi. Mi hanno portato una vecchia Lada tutta ferro, con i finestrini
anneriti. Ho trattato il prezzo: 10 Cuc (circa 9 euro) per starmene in
auto con il motore acceso (niente aria condizionata) sotto un sole da
liquefarsi per far funzionare il caricatore. Ho scritto di getto con i
polpastrelli dei pollici, ricordando quello che avevo visto e sentito.
Sette “mini-lanci”.
Di nuovo da Tyson. Il mio l’ho fatto, mi ero detto.
Tuttavia, non si poteva ancora ripartire: mancava all’appello il
fotografo del Corriere, che si era perso l’intervista mattutina con
Tyson per cercare un improbabile Internet point. Così, aveva deciso di
tornare, assieme al nostro driver, nella casa del killer per scattargli
alcune foto. Erano già trascorse due ore e non rispondeva più al
telefono. Decidiamo di andare a cercarlo e affittiamo un taxi che ci
porta nel Reparto di Puerto azzurro, dove vive Reiver. Arrivati,
percepiamo che qualcosa non va. Non c’è nessuno in strada e a quell’ora è
impossibile. E soprattutto non c’è la nostra auto.
La telefonata. Rientriamo verso la piazza dell’hotel.
Telefono al collega Pasqualetto del Corriere della sera e gli riferisco
che non abbiamo notizia del suo fotografo. «Fammi sapere in poco tempo –
gli dico –, perché c’è qualcosa che non torna». Subito dopo il nostro
taxista riceve una telefonata. Ci riferisce che il nostro amigo
periodista ci aspetta fuori dell’albergo. Lo guardo stupito e gli chiedo
come mai abbiano informato lui. Non risponde. Cerco di tranquillizzarmi
giustificando il silenzio del fotografo con la sua necessità di inviare
in fretta e furia le immagini. Sto ancora rimuginando, ma ormai siamo
arrivati alla piazza dell’hotel Ferro, dove ho pernottato. Ormai i
giochi sono fatti.
Il bliz della polizia. Tutto accade in pochi attimi:
la nostra auto che arriva, la strana concitazione, la folla eccitata. Ne
emergono alcuni energumeni. Non c’è neppure il tempo di chiedersi cosa
stia accandendo che siamo già fuori del taxi tra due poliziotti armati e
in borghese. Entro nella loro auto, mi sfilano di mano il cellulare. Si
parte. Silenzio assoluto. Non c’è nulla da capire perché non si può
capire nulla. Arriviamo alla caserma del ministero dell’Immigrazione.
Sono accompagnato nella sala d’aspetto. Ed è lì che ritrovo il driver,
il fotografo e i due colleghi che erano con me a Puerto Azzurro e che
erano saliti su un’altra auto. Comicia l’incubo.
L’attesa infinita. Ci guardiamo smarriti. Increduli.
Nessuno parla. Ilaria è riuscita a trattenere uno dei cellulari e invia
una serie di sms per informare dell’arresto. Possiamo solo chiedere da
bere o accedere a quelli che eufemisticamente sono chiamati bagni. Tre
ore dopo il comandante della stazione ci dice che saremo trasferiti al
Parlamento, ovvero al Ministero del Interior, per gli interrogatori.
Vogliono sapere tutto. Veniamo filmati, schedati. Sono gentili, i
soldati. Alle 21 ci danno da mangiare, ma siamo privati di ogni libertà.
Non capiamo quale sia il reato e soprattutto cosa aspettarci. Verso la
mezzanotte ci dividono. Io con i due collegi di Matrix finisco in una
casetta con due camerette. Ci chiudono dentro, sprangano le inferriate e
mettono un soldato di sentinella.
Gli interrogatori. Alle 8 siamo riportati al
Parlamento. Altri interrogatori. Sanno tutto di noi, ci hanno seguiti
fin dall’arrivo. Sanno perfino per quale testata lavoriamo. Ma
l’atteggiamento è cambiato. Più disponibili, meno rigidi, più propensi
al dialogo. Tra loro c’è un poliziotto guascone. Durante
l’interrogatorio fa una pausa e mi parla di calcio. È milanista. Se la
prende con Berlusconi perché, testuale, «ha svenduto troppi campioni».
Dopo il Milan per lui viene il Real Madrid. Gli ribatto che preferisco
il Barcellona. Si parla, si scherza. Rifiato, finalmente. Ma è il ruolo
dell’interprete, moglie di uno dei comandanti della caserma, che
risulterà importante per l’esito delle vicenda.
Il ruolo dell’interprete. L’interprete ama l’Italia.
Ama Bocelli, è nata lo stesso giorno. Ma è soprattutto una fan di
Jovanotti, di cui conosce i testi di ogni canzone. È lei a interrogarmi
per l’ultima volta e a tradurre ciò che dico al verbalizzante. È attenta
a evitare parole come complotto, organizzazione, piano. Si percepisce
che vuole escludere ogni connotazione politica della vicenda. Ripete che
il nostro unico obiettivo era quello di intevistare Reiver, accusato in
Italia di duplice omicidio. Alla fine dell’interrogarorio mi dice che
tra poco partiremo per l’Avana. E così accade.
Di nuovo all’Avana. Saliamo su un furgone con tre
poliziotti che custodiscono i nostri passaporti. Ma siamo di nuovo in
possesso dei cellulari. Ci aspetta il viaggio verso l’Avana, circa 8
ore, attraversando agglomerati poveri, ma affascinanti prima di
immetterci nell’autopista, 400 chilometri, due soste, un casco di banane
dal sapore ineguagliabile. Arriviamo all’Avana verso le 22. Nuovo
interrogatorio nella caserna dell’Immigrazione che ospita quelli che
stanno per essere espulsi. Il comandante ci spiega che il nostri visto
era in difetto, che rientreremo in Italia il giorno successivo, che
dormiremo in albergo, ma che saremo scortati fin dentro l’aereo.
Cuba colorata e in festa. È l’ultima serata a Cuba.
Decidiamo di uscire con un taxi laggiù, lungo il Malecon, il lungomare
dell’Avana, dove si dice che i cubani incontrino l’anima gemella. È
tardi, ma l’Avana come sempre è in festa. Colori, musica, danze, buon
cibo, spensieratezza, sorrisi. Cuba è soprattutto questo. E il regime fa
finta di non averlo capito.
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