Cuba non assassina. Non tortura. Non sequestra. Non conosce desaparecidos. Non ci sono renditions. Non ci sono detenuti all’insaputa dei familiari. Non ci sono esecuzioni extra-giudiziali. Per tutto questo, o malgrado questo, è una dittatura che patrocina il terrorismo internazionale. Firmato: Dipartimento di Stato USA.
Potrebbe ben essere questo il testo della deliberazione con la quale gli Stati Uniti, pochi giorni orsono, stilando la loro classifica annuale dei paesi che non combattono il terrorismo, hanno inserito Cuba.
L’isola socialista, che di terrorismo s’intende visti i tentativi d’invasione, le migliaia di vittime (3 478 morti e 2 099 feriti) e le centinaia di miliardi di dollari di danni subìti grazie proprio al terrorismo filo-statunitense che in Florida si organizza e vive con la copertura delle agenzie federali e locali statunitensi, subisce così la beffa oltre il danno.
Appare quantomeno singolare che gli Stati Uniti, il paese cioè che da 53 anni investe miliardi di dollari e ogni tipo di azione terroristica per sovvertire Cuba, accusi l’Avana di non combattere sufficientemente il terrorismo. Proprio a Washington dovrebbero sapere, invece, come e quanto Cuba è impegnata con successo contro il terrorismo, viste le innumerevoli figuracce che la Cia da più di cinquanta anni raccoglie nella maggiore delle isole delle Antille.
Ed è quantomeno stravagante che gli Stati Uniti, che scatenano guerre, invasioni di altri stati, bombardano popolazioni inermi con aerei con e senza pilota, che torturano e sequestrano i sospetti, che tengono aperti dei lager come Guantanamo e che rifiutano di uniformarsi alle più elementari norme del diritto internazionale, non riconoscendo né le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia quando le sono avverse (mine nei porti del Nicaragua) né il Tribunale Penale Internazionale per i crimini di guerra, assegnino pagelle al resto del mondo in termini di affidabilità nella lotta al terrorismo.
L’accusa di quest’anno formulata nei confronti di Cuba è che il suo sistema bancario non sarebbe trasparente e, con ciò, si presterebbe al riciclaggio del denaro sporco. E’ un’accusa ridicola nel suo contenuto e penosa negli scopi che nasconde. Solo pochi giorni orsono, infatti, il Dipartimento del Tesoro USA ha sanzionato tre banche (una olandese, un’altra svizzera e una terza australiana) accusandole di aver operato transazioni finanziarie con L’Avana.
Dunque in cosa consisterebbe la scarsa trasparenza se è possibile individuare le operazioni bancarie del paese sull’ estero? Eppure, il problema è proprio questo: gli Stati Uniti vorrebbero che Cuba documentasse a Washington tutti i suoi movimenti bancari, così da rendergli più semplice e agevole comminare sanzioni a chi, operando con gli USA, opera anche con Cuba.
Washington lamenta una scarsa cooperazione con L’Avana sui movimenti bancari, cioè un difetto di comunicazione (unilaterale) di Cuba nei confronti degli Usa, come se questo fosse obbligatorio e non una pretesa imperiale. In realtà Cuba ha proposto inutilmente agli USA (l’ultima volta nel febbraio 2012) un programma bilaterale di lotta al terrorismo, ma la Casa Bianca non ha mai risposto.
Fa bene dunque L’Avana a ricordare che sono gli USA il principale centro internazionale di riciclaggio del denaro sporco e che la loro ipocrita richiesta di trasparenza bancaria è una presa in giro, visti gli scandali dei suoi istituti di credito che hanno determinato dal 2008 la crisi finanziaria più grave della storia. La misura statunitense, invece, è ovviamente destinata a rendere più complicata l’attività commerciale dell’isola, perseguitando i suoi affari in ogni dove del pianeta e non ha nulla a che vedere con le norme sulla trasparenza bancaria.
C’è poi da ricordare un antecedente illuminante in termini di cooperazione tra Cuba e USA: quando Cuba decise di consegnare agli Stati Uniti un dossier sui terroristi in Florida, che organizzavano attentati contro Cuba e nell’intero panorama latinoamericano, il FBI non solo ignorò la denuncia, ma anzi decise immediatamente di arrestare i cubani residenti negli USA che si occupavano di smascherare la rete occulta terroristica e che avevano procurato le informazioni contenute nel dossier.
Condannati con processi farsa a pene detentive mostruose, i cinque cubani sono ancora prigionieri (uno è in libertà vigilata) e nemmeno la relazione di Gabriela Knaul, relatrice della commissione dell’Onu che analizza l’indipendenza dei giudici e degli avvocati e che si è pronunciata con critiche severe verso i processi sommari che si sono susseguiti contro i cinque cubani, ha avuto ascolto. Con quale coraggio si chiede “collaborazione”? Una ingenuità basta e avanza.
Quanto alla obiettività della lista non c’è niente di nuovo rispetto a quella degli anni precedenti e serve solo a costruire processi mediatici e politici funzionali a ulteriori sanzioni. Nello scorrere la lista dei cattivi, si può infatti facilmente notare come essi siano, casualmente, tutti paesi che non obbediscono a Washington, che non ne apprezzano la leadership indiscussa a livello planetario. Che non hanno cioè consegnato le loro ricchezze e la loro sovranità alla Casa Bianca e, soprattutto, che non riconoscono la volontà politica statunitense come fondamento del nuovo diritto internazionale de facto.
Eppure non c’è angolo del pianeta dove le bombe e le truppe statunitensi non abbiano operato. Non c’è avversario degli USA che non abbia conosciuto embarghi, terrorismo e invasioni militari. E non c’è episodio di brutalità gratuita contro le popolazioni civili commesso dai suoi soldati che sia stato giudicato e sanzionato. Ciononostante, con una sfacciataggine degna di un impero (in decadenza), Washington assegna pagelle agli altri paesi in termini di democrazia, rispetto dei diritti umani e di lotta al terrorismo.
Un paese che in poco più di duecento anni di storia ha utilizzato armi atomiche contro i civili, che ha inviato le sue truppe fuori dai suoi confini duecentosedici volte, che spaccia il suo espansionismo con il ristabilimento della democrazia e che definisce le vittime innocenti della sua foga imperiale come “danni collaterali”, meriterebbe di essere imputato perenne per reati di terrorismo e crimini contro l’umanità, più che ergersi giudice di altri. E’ questa la confusione che alberga: nell’unipolarismo coatto dei nostri tempi, il colpevole diventa giudice e la vittima diventa il colpevole. La traccia più evidente del paradosso esistente nell’era nefasta del nuovo disordine mondiale.
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