01 ottobre 2012

Cuba e Italia: i 4 giornalisti fermati stanno per rientrare in Italia, dovrebbero arrivare alle 17

«Erano gentili, qualcuno scherzava e, tra un interrogatorio e l’altro, ci hanno anche offerto la cena. Ma a me non veniva proprio da ridere». Domenico Pecile, il collega del “Messaggero Veneto” fermato dalla polizia cubana, venerdì, a Camaguey, subito dopo avere intervistato Reiver Laborde Rico, il 24enne indagato con la sorella Lisandra per il duplice omicidio dei coniugi Burgato, parla finalmente da “uomo libero”. Quando lo sentiamo, ieri mattina e per tutto il resto della giornata, è ormai a L’Avana.
Le autorità locali hanno restituito a lui e agli altri tre colleghi italiani accusati di violazione dello status migratorio - entrati con visto turistico, hanno in realtà svolto attività giornalistica - passaporti e telefonini. Alla fine, nei loro confronti non viene emesso alcun provvedimento di espulsione, ma il messaggio è ugualmente perentorio: sloggiare dal Paese. In fretta e auspicabilmente tutti insieme. In questo momento, dovrebbero trovarsi in volo verso l’Italia: l’atterraggio è previsto per le 17, all’aeroporto di Malpensa.
Il giorno dopo il “blitz” con il quale la polizia dell’Ufficio immigrazione aveva intercettato i quattro cronisti italiani - con Pecile c’erano anche la giornalista di Mediaset, Ilaria Calvo, l’operatore Fabio Tricarico e il fotoreporter del “Corriere della Sera”, Stefano Cavicchi -, la tensione si è un po’ allentata. La stanchezza, invece, è sempre tanta. E il ricordo di quanto avvenuto nelle ultime 24 ore sempre più nitido. «Arresto o fermo che sia - comincia Pecile -, fa poca differenza. La verità è che, dopo essere stati prelevati dall’hotel, siamo stati trattenuti in un ufficio e interrogati uno dopo l’altro per un’infinità di ore: dalle 15 a mezzanotte. Poi, Cavicchi è stato trasferito in albergo e noi tre in una “casa particular”, dove siamo rimasti chiusi a chiave, fino alla mattina successiva, quando la polizia è tornata a prenderci per portarci a un secondo round di interrogatori». Da incubo anche il successivo trasferimento nella capitale. «Ci hanno caricati su un furgone - continua-, con a bordo tre poliziotti. Il viaggio verso L’Avana non finiva più: quasi 8 ore, sotto una pioggia battente e in mezzo al buio pesto». Fino all’arrivo all’Hotel Tulipan, dove ai quattro cronisti sono stati finalmente restituiti i passaporti.
«L’impatto psicologico - spiega Pecile - è stato davvero notevole: tu non sai di cosa sei accusato e intanto loro ti tolgono i documenti e ti tengono chiuso in un ufficio per tutte quelle ore. Senza la possibilità di avvalerti di un avvocato e senza sapere a cosa vai incontro. È vero, sono stati molto gentili. Uno, in particolare, ci ripeteva “rilassatevi” e ci parlava di calcio e di Jovanotti. Ma a me non veniva affatto da ridere. È servito un autocontrollo micidiale». Interessati soprattutto alle foto e ai video ripresi dentro e fuori la casa di “Rei”, i funzionari incaricati degli interrogatori - “formalità”, come li chiamano a Cuba - hanno insistito in particolare sulle ragioni del loro viaggio. «Ci hanno chiesto chi ci ha mandati - continua Pecile -, chi ci aveva dato l’indirizzo di Reiver e se avessimo organizzato il gruppo già dall’Italia. In realtà, però, sapevano già tutto di noi. E sapevano anche che quello che stavamo trattando era il “giallo” dell’estate».
A L’Avana, i giornalisti sono stati ricevuti dall’ambasciatore d’Italia a Cuba, Carmine Robustelli, e dal suo vicario, Pietro de Martin. «Si sono spesi molto per noi - racconta Pecile - e hanno fatto di tutto per tranquillizare il mondo intero che stavamo bene. Il paradosso è che gli unici che non potevano tranquillizzare eravamo proprio noi. Noi che - continua - non potendo più comunicare con nessuno, abbiamo vissuto per tutto quel tempo nell’angoscia dell’incertezza». Alla fine, però, quello che rischiava di diventare un caso di diplomazia internazionale si è risolto in una sorta di “gentlemen agreement”. «Ne siamo usciti bene - spiega il collega -. Nei nostri confronti non è stato emesso alcun provvedimento di espulsione. Non siamo stati dichiarati cittadini “indesiderati”, insomma. Ci è stato semplicemente detto che dovevamo andar via, preferibilmente tutti insieme. E che ad accompagnarci all’aeroporto sarebbe stata la loro polizia: volevano essere sicuri che ci saremmo imbarcati». Niente di più facile, a questo punto della trasferta. «Forse non l’hanno capito - chiosa Pecile, ben sapendo di parlare anche a nome degli altri inviati -. Ma quello che ora noi tutti desideriamo è soltanto di sederci su quell’aereo».

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